Il termine “proteggere”, assume etimologicamente il seguente significato: pro sta per “davanti” e tegere per “coprire”.
Attraverso il meccanismo di protezione, evitiamo a noi stessi o a chi abbiamo di fronte di affrontare il male.
Uno dei primi insegnamenti che riceve un professionista sanitario, sia esso un medico o un infermiere, è proprio quello di fare in modo di preservare l’assistito da possibili conseguenze negative che peggiorerebbero la sua situazione.
L’informazione che tacitamente viene passata al professionista sanitario è quella di diventare una persona in grado di salvare la vita di qualcun altro.
A prescindere dall’illusione che si cela dietro questa assurda presunzione in cui tutti, me compresa, siamo incappati durante la formazione universitaria, vorrei porre l’attenzione sul modo in cui cerchiamo di preservare l’altro dal male.
Anche in caso di malattie molto gravi il nostro compito come professionisti è quello di mettere la persona malata di fronte alle proprie responsabilità: questa parola spaventa molto, e spaventava anche me in primis, fino a quando non ne ho compreso, con l’esperienza diretta, il vero significato.
Quando una persona malata viene informata in modo veritiero sulle proprie possibilità di guarigione e sul perché si trova a dover affrontare una malattia, abbiamo la possibilità automaticamente di metterla nella condizione reale di scegliere.
Ci è stato insegnato a proteggere chi è malato, ad avere maggiore accortezza nei suoi riguardi, sino a trattarlo come una vittima in preda di un male più grande e forte di lui.
A mio avviso, è qui che risiede il compito del professionista sanitario: iniziare a guardare e a considerare la persona come persona e non come una persona malata.
Ci hanno convinto che la malattia è qualcosa da annientare con tutti gli strumenti che la scienza ci ha messo a disposizione per salvare noi stessi e l’altro dal male.
Una persona che si ammala, ha smarrito se stessa e attraverso la malattia sta cercando di ritrovarsi.
La comprensione di quanto appena detto è indispensabile per innescare qualsiasi forma di guarigione.
Informare una persona sulle reali possibilità che ha di tirarsi fuori dalla sua sofferenza è il modo più sano che abbiamo per proteggere l’altro.
Al tempo stesso, lasciare che l’altro faccia la sua scelta che potrebbe anche essere quella di non vivere, è proteggerlo.
Non esistono mali incurabili che ci rendono vittime, ma siamo noi a scegliere sempre cosa e come affrontare noi stessi.
Condividere frasi ed atteggiamenti di circostanza sulla morte o il sopraggiungere di una malattia, atti a deresponsabilizzare la persona coinvolta, non ci permette di esserle di aiuto.
Quando la malattia colpisce qualcuno che viene definito non in grado di intendere e di volere, è nostro compito responsabilizzare i tutori, attraverso un’informazione reale, che spesso coincide con una verità cruda e scomoda da accettare.
Quello che in psicologia viene definito come “schiaffo terapeutico”, non è altro che cercare di svegliare l’altro e mostrargli che può, da un momento all’altro, riprendere in mano la propria vita, smettendo di considerare se stesso come qualcuno che ha bisogno di essere protetto.
Possiamo proteggere noi stessi sempre in ogni situazione.
Ma perché allora tante persone non ce la fanno?
Non ce la fanno perché non vogliono arrivare a vedere quanto potrebbero in realtà fare per loro stesse e si affidano all’esterno, ma senza partecipare attivamente, sperando che qualcuno sarà in grado di estirpare il loro “male”.
Niente di più falso e illusorio.
È giunto il momento di fare ancora più luce su ciò che ognuno di noi può fare per se stesso, e renderci conto, se siamo dei professionisti sanitari, di quanto possiamo davvero aiutare l’altro, se solo iniziamo a smettere di credere che siamo indispensabili per la sua vita.